Le resistenze all’uso dei farmaci in genere, e degli psicofarmaci in particolare, sono frequenti sia in medicina umana sia in medicina veterinaria, e coinvolgono non solo i pazienti ma anche i medici stessi. Le motivazioni, che sono più di tipo culturale che scientifico, inducono a scelte pregiudizialmente fondate che possono rivelarsi non beneficiali per il paziente; basti pensare, ad esempio, al limitato ricorso ai farmaci oppiacei nella terapia del dolore da parte della maggior parte dei medici italiani, nonostante la legge 12/2001 che ne agevola l’impiego. Un caso ancor più eclatante può essere rappresentato dalla morte prematura di Steve Jobs, a causa di un tumore curato con metodi alternativi: il suo tumore in realtà non era letale, e se si fosse affidato alle cure tradizionali avrebbe potuto continuare a stupirci con le sue “visioni”. Su questo argomento vi propongo la lettura di un articolo di Umberto Veronesi :“Il pericoloso esempio di Steve Jobs”
D’altra parte, lo sviluppo degli psicofarmaci e degli antipsicotici in particolare, ha permesso di trattare patologie psichiatriche, come la schizofrenia e il disturbo bipolare, riducendo i sintomi fortemente invalidanti tra cui i deliri, le allucinazioni e l’eccitazione, e migliorando la qualità di vita di milioni di persone affette da tali disturbi. L’azione terapeutica di questi farmaci si manifesta a livello di quelle modificazioni neurotrasmettitoriali responsabili dell’insorgenza della malattia, poiché è ormai assodata la stretta correlazione tra stati mentali e attività dei neurotrasmettitori. Tuttavia, l’orientamento attuale nel trattamento delle patologie psichiatriche si avvale sempre più dell’associazione delle varie forme di psicoterapia con la terapia farmacologica, grazie soprattutto allo sviluppo di psicofarmaci che contribuiscono a migliorare la compliance medico-paziente, favorendone una più attiva partecipazione ai programmi riabilitativi, psicoeducazionali e psicoterapici.
Da quando sono stati superati i vincoli interpretativi del comportamentismo e dell’etologia classica, a partire dalla prima metà del ‘900, si è data enfasi allo studio della mente animale, oltre che consolidarsi progressivamente anche l’approccio psicopatologico alla cura delle patologie comportamentali degli animali d’affezione. In definitiva, lo studio delle componenti cognitive ed emozionali del comportamento animale inaugurava la visione psichiatrica del disturbo comportamentale stesso. A questo proposito, vorrei fare un breve inciso per quanto riguarda l’utilizzo dell’anacronistico termine “medicina comportamentale veterinaria” che, sostituirei col più appropriato “psichiatria veterinaria” per superare, una volta per tutte, quelle ipocrisie scientifiche che si oppongono al riconoscimento di una mente animale e delle sue funzioni: intelligenza, memoria, percezione, rappresentazione, emozione, comunicazione, previsione…
Tornando al nostro discorso, l’espressione del comportamento animale quindi, in quanto esito dell’elaborazione da parte delle funzioni mentali delle influenze ambientali e degli stati interni – nell’ambito dei limiti e delle virtuosità potenziali di specie, di razza e individuali – costituisce la migliore risposta adattativa a un determinato contesto fisico, sociale e relazionale nel qui e ora. Questa capacità, elaborativa e responsiva, di adattarsi alle diverse configurazioni di contesto, rappresenta la plasticità comportamentale che è espressione diretta della plasticità cognitiva ed emozionale, a sua volta è determinata dall’attività dei vari sistemi neurotrasmettitoriali. La perdita di tale plasticità è alla base dell’insorgenza della patologia comportamentale, come conseguenza dell’evoluzione di stati mentali patologici (fobico, ansioso, depressivo, di strumentalizzazione, distimico) causati da processi mentali patologici (sensibilizzazione, anticipazione emozionale, inibizione patologica…).
L’animale patologico è, quindi, ingessato in una gabbia comportamentale che non gli permette di esprimere risposte congruenti adattative. La neurofisiopatologia dà ragione alla stretta correlazione tra disfunzione dei sistemi neurotrasmettitoriali (noradrenalina, serotonina, dopamina…) e stati patologici mentali. Dalla valutazione di questo connubio, nasce la diagnosi funzionale del medico veterinario comportamentalista e la scelta terapeutica farmacologica, e/o feromonale, più appropriata. Quindi, il medico veterinario comportamentalista solo in questi casi prescrive lo psicofarmaco; questo vuol dire che la prescrizione farmacologica non è scontata o automatica, e in ogni caso rappresenta un supporto alla terapia comportamentale che è invece sempre prescritta, dal momento che l’aspetto relazionale all’interno del sistema famiglia condiziona fortemente, sia in senso positivo sia negativo, l’espressione comportamentale del cane e, naturalmente le sue emozioni e le sue competenze cognitive.
Vorrei sottolineare, per concludere, che quando ci troviamo davanti a un cane con uno stato mentale patologico…sta soffrendo! Noi medici veterinari abbiamo il dovere professionale e morale di curarli e di evitare loro, quando possibile, sofferenze. Ѐ vero che non è semplice fare una diagnosi di stato patologico mentale e scegliere la molecola adatta, ed è ancora meno semplice capire quando non occorre e non è necessaria utilizzarla, ma questo fa parte del lavoro dei medici veterinari comportamentalisti!