L’antropomorfismo, ovvero l’attribuzione di aspetto o di caratteristiche umane a ciò che non è umano – anche conosciuto con il termine “umanizzazione” – è un fenomeno in costante aumento tra i possessori animali domestici.
Un famoso negozio di Los Angeles mette in vendita pellicce di visone per cani alla modica cifra di $225, collari tempestati di pietre preziose per un altrettanto modico importo di $219.95! La lista è infinita, si parte dagli impermeabili, alle tute sportive in angora, per finire con i collari con cristalli incastonati; non crediate che questo fenomeno sia ristretto alla esigua fascia dei ricchissimi, la vendita di questi articoli sta ottenendo un vero e proprio boom negli USA. Nell’ultima decade, il fatturato generato da questo settore è aumentato da $17miliardi a $35.9 (2005).
Anche l’alimentazione degli animali assume un ruolo importante nel processo di umanizzazione del cane. Questo dato è confermato con tanto di statistiche dalla American Veterinary Medical Association (AVMA); le famiglie hanno visto la riduzione degli animali da compagnia dal 73% al 68%, mentre tra le coppie senza figli la percentuale è aumentata dal 53% al 72%! Ken Wilks, vice presidente vendite della Merrick Pet Care in Amarillo (Texas), descrive gli ingredienti della linea “gourmet” lanciata nel 2002 come “composta da ingredienti degni di un ristorante di buona qualità”. Gli americani hanno speso nel 2005 $425.000.000 in prodotti per l’igiene orale dei propri cani!
L’Italia, anche se con consumi più modesti, mostra andamenti del tutto simili a quelli americani e c’è da scommettere che quello che sta succedendo negli USA, come da tradizione, tra pochi anni avverrà anche qui da noi.
Molti proprietari non sanno granché sull’atteggiamento antropomorfo che assumono con i propri cani, né dei problemi conseguenti a esso associati. Le teorie che spiegano le motivazioni che spingono l’uomo ad attribuire le proprie caratteristiche agli animali (ma anche agli oggetti) sono varie, ne elenchiamo alcune.
La “tesi della famigliarità” spiega l’atteggiamento antropomorfo come un mezzo per spiegare cose che non capiamo in termini a noi comprensibili, attraverso un modello con il quale abbiamo dimestichezza o maggiore famigliarità!
La “tesi del conforto”, in contrasto con la precedente, spiega che l’uomo non si sente a proprio agio con cose diverse da sé, quindi rendere queste cose umane aiuta a ridurre il disagio. Più precisamente, si tratta di un tentativo per avere la sensazione di definire o controllare il mondo quanto più questo ci assomiglia.
Nella “tesi della migliore scommessa” l’approccio all’antropomorfismo assume caratteristiche cognitive, anche legate alla teoria del gioco, affermando che posti davanti ad una situazione di incertezza cronica circa la natura del mondo, cercare d’indovinare che alcuni eventi hanno caratteristiche umane costituisce “a good bet”, ovvero una scommessa con buone possibilità che la nostra previsione, si riveli corretta e, dunque, nello spirito tipico dello scommettitore con grandi guadagni in caso di vincita e piccole perdite in caso di sconfitta.
Caporarel e Heyes hanno avanzato un’altra teoria denominata “Species-Specific Group-Level Coordination System”, dove l’attribuzione di caratteristiche umane agli animali è un modo per cambiare il valore che gli attribuiamo e il nostro comportamento verso di loro.
La “tesi della intercambiabilità dell’oggetto e del soggetto” spiega che l’antropomorfismo è un comportamento che permette di attribuire a un oggetto o animale una particolare importanza, definendo chi siamo individualmente o culturalmente.
Belk, infine, spiega che “umanizzare” serve allo scopo di collocare l’oggetto del nostro interesse all’interno della sfera intima della famiglia, per ottenere completa sovranità, suggerendo che il rapporto antropomorfo con l’animale in realtà nasconde il desiderio di asserire la propria autorità e, allo stesso tempo, di dare una spiegazione alle proprie azioni.
Quale posizione assumono gli addetti ai lavori davanti al dilagare di questo fenomeno nel nostro Paese?
“Il cane va trattato da cane. Col passaggio alla vita cittadina si è persa la capacità di interpretare i bisogni dei cani. Spesso li si tratta come bambini e alcuni padroni, per un eccesso di buonismo malinteso, hanno sviluppato troppo rispetto per l’animale”. Danilo Mainardi (Corriere della Sera).
L’uomo a differenza del cane è capace di ragionare, quindi, di porsi dei quesiti relativi a cose sconosciute, da non confondersi con la capacità di richiamare dalla memoria esperienze passate per risolvere un problema (risposta strumentale); il ragionamento è generato dall’individuo senza agganci a esperienze passate.
Il cane condivide con noi molti aspetti relativi all’apprendimento e ai rapporti sociali, come noi stringe forti legami, come noi è capace di varie forme di aggressività, come noi agisce all’interno di una gerarchia ben definita, come noi espleta dei compiti ben precisi, come noi deriva esperienze negative o positive da determinate esperienze, come noi attua comportamenti evitativi; la lista potrebbe continuare ancora a lungo, per fermarsi però al passaggio dall’apprendimento al ragionamento. Spesso, quando ci troviamo davanti a circostanze a noi precedentemente sconosciute, cercheremo consapevolmente o inconsapevolmente di agganciarle a esperienze passate nel tentativo di trovare una spiegazione.
L’interpretazione del comportamento del cane inizialmente passa sempre attraverso il meccanismo di unione delle nostre esperienze al ragionamento che anch’esso si comporti allo stesso modo. I cani non sono capaci di comprendere concetti come giusto o sbagliato, buono o cattivo. Siamo piuttosto noi a interpretare come comprendono questi concetti astratti, la loro capacità di apprendimento.
Libri, cinema e televisione hanno contribuito a radicare la convinzione che i cani siano capaci di ragionamento, quante volte Zanna Bianca, Lassie, Rin tin tin, il commissario Rex hanno salvato vite, evitato crimini, difeso dai malfattori! Ottimo intrattenimento intendiamoci, ma estremamente fuorviante per quello che riguarda la capacità di pensiero e di ragionamento del cane. “Il Richiamo della Foresta” fu pubblicato nel lontanissimo 1903; Jack London, al pari di altri scrittori, fu criticato da John Burroughs, un famoso naturalista dell’epoca che li soprannominò “falsificatori della natura” (nature fakers). London si difese, dicendo che i suoi racconti erano una protesta contro l’umanizzazione degli animali, della quale molti scrittori erano colpevoli: “L’ho fatto per inculcare nella comprensione della persona media che questi miei cani-eroi, non erano guidati da ragionamenti astratti, ma piuttosto da istinti, sensazioni, emozioni e semplici ragionamenti. Ho cercato, inoltre, di rispettare quanto la ricerca scientifica ha scoperto sull’evoluzione dei personaggi delle mie storie”.
Se London sia riuscito nel suo intento è quantomeno discutibile, trovo comunque geniale specialmente per quei tempi l’idea di ascrivere a una animale capacità, sì umane, ma dettate dall’istinto.
Spesso il proprietario non informato sopravvaluta le capacità del proprio cane, l’antropomorfismo in sé non sarebbe così deleterio, al contrario, ad esempio, regalare al cane una bistecca per la festa di compleanno non ha controindicazioni; la tragedia del comportamento di umanizzazione è nella assoluta mancanza di sforzi per comprendere il comportamento del cane.
L’antropomorfizzazione del cane non è fatta, però, soltanto di gratificazioni, di protezione e amore. Ancora oggi i cuccioli sono portati a casa e quando “sporcano”, rosicchiano gambe di tavoli, divani, scavano buche nel giardino, sono corretti con la “classica” bagnata di naso, brandendo un magico giornale arrotolato o altri prodotti dell’ignoranza che ancora tristemente dilaga nel nostro Paese. I risultati sono sempre gli stessi, il cucciolo impara a “comportarsi bene” quando chi punisce è nei paraggi, per riprendere le attività di distruzione in sua assenza; qui scatta il meccanismo successivo, al rientro umanizzando per evidenti segnali di colpevolezza quelli che in realtà sono segnali intesi per calmare o pacificare.
“Papà” o “mamma” si arrabbiano, mandano segnali che il cucciolo ha imparato essere il preludio a qualcosa per lui spiacevole, spesso suggerendo una fuga “tattica” in attesa che le acque si calmino. Naturalmente, siccome il cane viene trattato alla stregua di un bambino degli inizi del ‘900, la fase successiva sarà di chiamarlo con tono perentorio: “Vieni subito qui!”, un metodo infallibile per insegnare al cane a non venire. Il passo è poi breve, il cane disobbediente e dispettoso può essere tollerato fino quando i danni provocati non iniziano a influire in maniera significativa sul bilancio famigliare e/o il coniuge minaccia misure drastiche. Di conseguenza, l’animale rischia di:
• essere abbandonato per strada;
• essere portato al canile municipale;
• essere restituito in allevamento;
• essere portato a fare un corso educativo.
Nell’ultimo caso, lo scoglio più duro è quasi sempre costituito dalla difficoltà nel fare capire al proprietario che il comportamento da cambiare è il suo e poi quello del cane.
Più spesso che no, il problema più grande per iniziare un piano di recupero del cane è costituito dalla difficoltà di convincere il proprietario che i comportamenti indesiderati, sembrano alimentare l’idea che il cane riesca a capire ciò che è giusto è ciò che è sbagliato, rafforzando l’interpretazione che umanizza il cane, aggravando ulteriormente un equilibrio già abbastanza compromesso.
James A.Serpell ha scritto un interessante articolo su questo argomento, pubblicato nel Society& Animals (Vol. 11, No.1). Serpel ha considerato, come nei millenni di convivenza, l’antropomorfismo abbia forgiato la relazione tra uomo e gli animali d’affezione; il cane indiscusso primo tra questi. “La selezione antropomorfa è probabilmente responsabile per alcune delle forme più gravi di problemi legati alla salute negli animali da compagnia”. Serpell spiega, che stando a precedenti ricercatori, l’antropomorfismo trova spiegazione alla sua origine nel grandissimo valore che esso assume nella lotta per la sopravvivenza. L’Homo Sapiens divenne un “super predatore” per la sua capacità di anticipare il comportamento delle proprie prede; inoltre, l’attribuzione agli animali di caratteristiche umane favorì l’ingresso degli stessi nelle comunità.
Se quanto sopra offre una spiegazione a come il fenomeno iniziò un tempo, Serpel nota che ciò non spiega perché questa pratica è andata avanti per migliaia di anni, fino ai giorni d’oggi. Tra le varie ipotesi formulate, si ricordi quella che gli animali da compagnia, in particolare i cani, siano dei parassiti (Stephen Budiansky) della nostra società, che hanno perfezionato l’arte di approfittare del nostro innato istinto genitoriale. Serpel descrive un’altra teoria, che sostanzialmente giustifica l’adozione di un animale da compagnia per lo stesso motivo per cui s’indossa un cappotto, ovvero per non sentire freddo; gli animali d’affezione migliorano la nostra salute e qualità della vita.
Studi hanno evidenziato alcuni sorprendenti effetti della convivenza con uno o più animali d‘affezione; ad esempio, tra i possessori di animali, il rischio di problemi cardiovascolari è notevolmente più basso rispetto a chi non ne ha, come pure il tasso di sopravvivenza a seguito di un infarto.
Ecco una breve elenco dei vantaggi nel possedere un cane, emersi da ricerche portate avanti negli USA e Canada, di cui beneficiano i proprietari di animali da compagnia rispetto a chi non si avvale della loro compagnia:
• uno studio condotto su 100 pazienti “Medicare” in età avanzata evidenzia il 21% di visite in meno dal medico;
• pressione sanguigna più bassa, 10 minuti in compagnia di un animale riducono la pressione;
• bambini autistici attuano un maggior numero di comportamenti socialmente orientati;
• abbassamento dei trigliceridi e dei livelli di colesterolo;
• il 70% delle famiglie intervistate ammettono un aumento nella felicità e nel divertimento della vita famigliare;
• bambini che hanno avuto contatto con animali durante il primo anno di vita dimostrano una minore frequenza di alcune forme allergiche e asma;
• avere un cane in casa aiuta i bambini a sopportare la malattia cronica o perdita di un genitore
• mortalità provocata da attacchi cardiaci è minore del 3%;
• avere un cane accresce la stima di se stessi nei ragazzi;
• tra chi ha contratto l’AIDS, la presenza di un animale abbassa i livelli di stress e di depressione.
(Dr. Bonnie Beaver Texas A&M University’s College of Veterinary Medicine).
Uno studio del Dipartimento americano della Salute ha stabilito che il 28% di pazienti con animali in casa è sopravvissuto a gravi attacchi cardiaci contro il 6% di “non possessori”. Un altro studio ha evidenziato livelli di colesterolo più bassi del 2%.
Sembra che quanto più il legame con il proprio animale sia forte, tanto più sia benefico l’effetto sulla psicologia e fisiologia dell’individuo, a riprova che cani gatti e uccelli svolgano un vero e proprio ruolo come supporto sociale ai loro possessori. In sintesi, Serpell sostiene che l’antropomorfismo permette alle persone di trarre benefici a livello emozionale, sociale e psicofisico, dal rapporto con gli animali. La maggior parte dei possessori di animali è convinta di essere amata dal proprio beniamino, convinta che “Argo” sia geloso quando vede l’attenzione rivolta ad altri. Certamente si potrebbe argomentare (continua Serpell) che queste persone non fanno altro che deludersi e che le emozioni e sensazioni che attribuiscono ai loro animali siano per gran parte infondate; rimane, però, il fatto che senza queste condizioni il rapporto con l’animale d’affezione sarebbe privo di significato.
Certamente, spesso chi si avvicina alla cinofilia lo fa quando l’umanizzazione del cane e la conseguente incomprensione di certi suoi atteggiamenti inizia a incrinare quel rapporto nato per le motivazioni evidenziate nello studio condotto da Serpell, che considera, ad esempio, i Bulldog come cani usati dalle università americane per lo studio delle apnee notturne, avanzando il sospetto che anche il taglio della coda contenga alcuni elementi di antropomorfismo. Certamente è innegabile che difetti anche gravi, non solo vengono ignorati dai sostenitori di talune razze, ma spesso anche applauditi.
Fin qui abbiamo fornito alcune informazioni su quello che viene descritto come “antropomorfismo classico”. Esiste, però, un’altra forma detta “antropomorfismo critico”. Le fondamenta di questa meno nota forma di approccio al comportamento animale pone le sue radici nella scienza, piuttosto che nel folclore o nell’emozionalità, prendendo in esame quanto è già conosciuto del comportamento della specie oggetto di studio, delle variabili ambientali, dell’età della salute e stato sociale del soggetto osservato. L’antropomorfismo critico viene usato quotidianamente nei centri di ricerca, negli zoo dai biologi che registrano i dati raccolti. La raccolta dei dati avviene in modo organico, seguendo un percorso ben preciso composto da quattro domande fondamentali per la comprensione di un determinato comportamento:
– come avviene;
– come si sviluppa;
– come si è evoluto;
– la funzione.
Tenere degli animali fuori dal loro ambiente naturale implica, in gradi diversi, la conoscenza del loro comportamento, della loro ecologia, del modo con il quale avviene l’interazione con la propria e altre specie, e gli effetti dei cambiamenti sulla popolazione e sugli individui. Questo comporterebbe la gestione delle razze in modo più organico (e interessante), magari prendendo l’esempio dai paesi scandinavi, a mio avviso anni luce avanti a noi in questo campo.
Il rapporto tra uomo e cane sembra beneficiare. Fortunatamente le nuove generazioni, a differenza della mia (e anche qualcuna dopo), oggi ricercano una formazione didattica che gli permetta di partire con il piede giusto, limitando i danni dovuti all’inesperienza, al minimo fisiologico possibile. Credo che soltanto attraverso una maggiore conoscenza del cane si potrà riuscire a contenere gli effetti indesiderati conseguenti all’attribuzione di caratteristiche umane al proprio amico a quattro zampe, prendendo in considerazione anche i bisogni del cane e non solo i nostri.