Con la Dichiarazione universale dei diritti degli animali proclamata il 15 ottobre 1978 presso la sede dell’UNESCO a Parigi e la Convenzione europea per la protezione degli animali di Strasburgo del 1987 si assiste al riconoscimento dell’essere senziente dell’animale. Cioè della capacità di vivere l’esperienza soggettiva della sofferenza.
L’ordinanza del Ministero della Salute del 6 agosto 2013 attribuisce al proprietario o all’eventuale detentore la responsabilità civile e penale per danni a persone o cose causate dall’animale stesso. Per questo motivo impone al proprietario/detentore l’adozione di determinate misure: lunghezza del guinzaglio, museruola a portata di mano, raccogliere le feci, assicurarsi che il proprio cane sia in grado di mantenere una condotta sociale compatibile con le esigenze della convivenza cittadina, con gli umani e gli altri animali.
La disposizione di questa norma, come peraltro chiaramente preannunciato nel suo titolo, non soddisfa lo spirito della Dichiarazione universale di Parigi e della Convenzione europea per la protezione degli animali, poiché si sofferma giustamente su misure volte a limitare la libertà di movimento degli animali da un lato e sull’istituzione di “percorsi formativi per i proprietari” dall’altro. Ho scritto “giustamente” perché, in mancanza di una conoscenza sull’importanza della costruzione di una corretta relazione cane-proprietario, al legislatore non resta altro da fare, per tutelare la salute pubblica dalle aggressioni canine, che porre l’accento sulla responsabilità del proprietario. Non c’è margine, quindi, per preoccuparsi dell’essere senziente dell’animale, né per sensibilizzare il proprietario al suo ruolo educativo verso il proprio animale.
Il concetto teorico dell’essere senziente è interpretato in definitiva con la pratica dell’esercizio della patria potestà, cioè il potere dei proprietari sui propri animali che legittima l’adozione di comportamenti arbitrari e autoritari, espressione di un modo di pensare l’animale un oggetto di proprietà.
Le leggi restrittive denunciano il fallimento della società, l’incapacità dell’uomo a dialogare e a capire l’altro, la fretta di trovare soluzioni rapide a problemi complessi. Le conseguenze non possono che essere peggiorative del problema originario, diventando esse stesse problemi. Un esempio per tutti: il problema del randagismo ha prodotto il problema dei canili e della loro gestione.
Che cosa fare allora? Convincersi che non esistono soluzioni rapide. Salvo che non si voglia fare come a Sochi o in Cina: sterminare i cani vaganti per eliminare il randagismo!
Occorre prevedere, oltre alla responsabilità legale e al concetto di patria potestà, la responsabilità di tutoraggio o, senza volere scandalizzare nessuno, la responsabilità parentale. I cani a tutti gli effetti oggi sono membri di una famiglia allargata, vivono in famiglia, hanno un valore affettivo e pertanto rappresentano anche un polo educativo di cui si deve fare carico il proprietario e tutta la famiglia di adozione.
I proprietari, alla pari del loro ruolo genitoriale verso i figli, devono sapere come costruire una relazione di fiducia col proprio cane, non improntata sul codice del dominante-sottomesso. Il cane non è più da considerare un oggetto da possedere, fosse anche solo per il piacere di godere della sua compagnia. Il cane è come una persona, un soggetto che ha diritto a cure affettive, alle attenzioni utili a permettere la sua crescita e la sua formazione globale, nella piena consapevolezza tuttavia che non è un essere umano, ma un’entità vivente di una specie differente che ha bisogni, caratteristiche di sviluppo, esigenze vitali (oltre a quelli basilari di mangiare, dormire, stare in salute) indispensabili per la propria autoregolamentazione per l’inserimento nella società complessa e contraddittoria delle persone umane.
Gaspare Petrantoni
Medico veterinario comportamentalista