Valutare la pericolosità del cane
13 aprile 2014
6 min

Valutare la pericolosità del cane

etologia

Quando si dibatte sulla questione del pericolo di aggressioni del cane vengono proposti vari criteri nel tentativo di individuare un paradigma che dia riferimenti accettabili, sia per definire il livello di pericolosità di un cane che ha morso sia per riconoscere un cane impegnativo, cioè un cane che ancora non ha morso, ma che può farlo (premesso che non si può escludere in assoluto che un dato cane non morderà mai).

Sostanzialmente si possono definire tre correnti di pensiero: quella che attribuisce la pericolosità alla razza, quella che la attribuisce alla taglia ovvero alle caratteristiche morfologiche del cane, come lo spessore della mandibola, e quella che attribuisce la responsabilità delle aggressioni al proprietario.

Il desiderio di individuare un criterio, il più condiviso possibile, è dettato dal bisogno, strettamente umano, di ordinare all’interno di una determinata categoria le varie forme di espressione di un fenomeno, in questo caso le aggressioni a opera di cani, quale strumento di identificazione del cane pericoloso. Ma questo bisogno di categorizzare è un’esigenza cognitiva umana, necessaria per dissipare paure e per risparmiare energie; essa, se non è sostenuta da adeguate conoscenze, è produttiva di bias cognitivi, ovvero semplificazioni, e le semplificazioni esagerate non aiutano, anzi peggiorano il problema, producono guai.

L’inghippo sta nel fatto che, indipendentemente dalla taglia e dalla razza, molti proprietari allevano e accudiscono il proprio cane, sia esso un rottweiler, un barboncino, un bassotto, un pastore tedesco, come se fosse un bambino.

Molti di coloro che attribuiscono un maggior peso alla razza o alla taglia sostengono che un cocker, per quanto aggressivo, non ha mai ucciso nessuno (se è per questo anche i levrieri di grande taglia non hanno mai ucciso nessuno) e, quindi, enfatizzano il criterio della pericolosità legato alla taglia o alla razza. Questo ragionamento, per quanto condivisibile, non mette in luce il reale problema delle aggressioni. Se si escludono, infatti, le aggressioni come sintomo di una patologia comportamentale o organica, la maggior parte di esse sono la conseguenza di una relazione derivale che ha le sue origini nella natura umana.

Il mancato bilanciamento della relazione cane-proprietario non deriva solamente dal fatto di considerare e trattare allo stesso modo un rottweiler, un pastore tedesco, un pastore maremmano, un bolognese, un beagle o un qualunque tipo di incrocio, ma anche nel considerarli e trattarli come bambini.

Un altro elemento di pericolosità, infatti, è rappresentato dal modo con cui il proprietario tratta il proprio cane nelle sue diverse età della vita: cucciolo, adolescente, adulto, vecchio. Indipendentemente dalla fascia di età, lo tratta sempre allo stesso modo, cioè come un piccolo bisognoso di cure e di protezione ignorandone il cambiamento evolutivo, specialmente quello che lo porta alla pubertà e poi all’età adulta, che sono caratterizzate da profonde trasformazioni non solo dimensionali e morfologiche, ma specialmente motivazionali e, quindi, comportamentali.

Solo quando il cane manifesta le intemperanze non controllate dell’adolescenza o l’assertività del cane maturo che è diventato adulto, il proprietario si avvede della trasformazione, ma senza comprenderla nella sua reale natura. Non è un caso che il segno di questa trasformazione ha un carattere eclatante: il morso a un componente della famiglia! Non ci si rende conto in definitiva che, in mancanza di un intervento educativo, regolatore delle intemperanze adolescenziali e di una corretta comprensione e gestione degli “indizi di posizionamento”, che conferiscono la leadership al cane, questi non fa altro che realizzare il proprio progetto di vita: vivere in un gruppo sociale e guidarlo, se nessuno se ne prende la briga; si prende cioè “in prima persona” la responsabilità del gruppo sociale.

La mancanza di consapevolezza fa sì che il proprietario non modifichi il proprio modo di relazionarsi col proprio cane, non controbilancia adeguatamente il cambiamento fisiologico del comportamento del proprio cane, sia esso un rottweiler, un pastore tedesco, un pastore maremmano, un bolognese, un meticcio di dieci chili o un meticcio di cinquanta chili, o un bassotto, ma anche sia esso un cucciolo, un adolescente, un adulto o un cane vecchio.

È ovvio che un proprietario inconsapevole di un “cagnaccio” di cinquanta chili è più a rischio di un proprietario inconsapevole di un cane di dieci chili, ma è anche vero che ci sono cani di cinquanta chili che sono degli agnellini e cani di dieci chili che sono delle furie scatenate. Ma dobbiamo tenere anche conto delle motivazioni caratterizzanti la razza e di quelle individuali: ci sono cani che sono interessati a inseguire e a sbranare, altri che non chiedono altro che di vivere in simbiosi col proprietario e non farebbero del male a una mosca.

Solo attraverso la conoscenza della diversità del mio cane potrò comprenderlo nei suoi bisogni, nei suoi interessi, nelle sue attese e, quindi, guidarlo nella costruzione di una relazione e realizzare così una convivenza sicura e tranquilla per lui, per gli altri e per me.

Tornando alla questione della criteriologia per valutare la pericolosità di un cane, si può prendere in considerazione il criterio della razza o della taglia, ma secondo me, come criterio integrativo, mentre attribuirei valenza nodale al criterio della conoscenza e della consapevolezza del proprietario, per evitare che un rottweiler sia gestito come barboncino e che un cane adulto, di qualunque razza sia o meticcio, sia trattato come un cucciolo di tre mesi.

È pur vero tuttavia che la psicologia, come la biologia, ha mille forme di espressione e che si può incontrare tutto e il contrario di tutto, ma per questo motivo bisogna fornire servizi qualificati al proprietario di consulenza comportamentale, sia nella fase adottiva, sia nella diagnosi e cura delle patologie comportamentali e di quelle relazionali. Occorre evitare, quindi, le adozioni spinte senza un’assistenza professionale qualificata, che non tengono conto delle incognite di una convivenza abbandonata a se stessa.

 

Gaspare Petrantoni                                                                                                                   

Medico veterinario comportamentalista